Il Mao, museo d’arte orientale, tiene nella sua pancia di balena, un prezioso viaggio nella Cina contemporaneità.  Una mostra quanto mai originale dal titolo China Goes Urban. La nuova epoca della città”, curata dal Politecnico di Torino e da Prospekt Photographers, in collaborazione con la Tsinghua University di Pechino e Intesa Sanpaolo.

Il tema principe è l’urbanizzazione.

Infatti nel 1978, il 18% della popolazione cinese abitava nelle aree urbane. Da allora, gli abitanti delle città sono aumentati al ritmo di circa l’1% all’anno e sono attualmente il 60% del totale della popolazione. Nuove infrastrutture e nuovi insediamenti hanno progressivamente cambiato il paesaggio, trasformando i diritti di proprietà, travolgendo i confini amministrativi, “mangiando” gli spazi rurali e i villaggi.

Tongzhou, Zhaoqing, Zhengdong e Lanzhou sono le new town prese in considerazione, spostandosi continuamente dalla Cina al mondo e poi dal mondo alle specificità dei nuovi insediamenti.

Ogni anno, in Cina, oltre 16 milioni di persone si spostano dalle aree rurali a quelle urbane dando origine a quella che è considerata la più grande migrazione di massa che il mondo abbia mai visto. Non si tratta di un processo “eccezionale”, ma di un trend globale: come rilevato da UN-Habitat, nel 2007 infatti la popolazione urbana del pianeta ha superato la popolazione rurale. Il fenomeno dell’urbanizzazione planetaria non implica però solo l’aumento della popolazione delle città o lo sviluppo degli insediamenti, ma anche l’incremento di sempre più intense

Fotografie e video, installazioni, maquette, dati e infografiche accompagnano i visitatori in questo viaggio straniante e familiare al contempo. Per questa mostra è stata composta appositamente una musica che si attaglia perfettamente ai video e al senso di cambiamento e velocità che contraddistingue il momento.

Capire il processo di urbanizzazione cinese non è semplice. Così abbiamo interpellato i curatori Michele Bonino e Francesca Governa docenti del Politecnico di Torino, per qualche domanda.

Nel momento in cui siamo stati obbligati al distanziamento sociale, una mostra ci racconta uno dei momenti di maggiore assemblamento attraverso la grande trasformazione urbanistica cinese nelle new town. Cosa sta davvero accadendo in Cina? Nell’esposizione China Goes Urban, da voi curata, quale è l’elemento che maggiormente sfugge al nostro occhio occidentale?

China Goes Urban vuole indurre i visitatori a guardare la Cina con occhi diversi da quelli abituati al nostro mondo. Anche per questo, abbiamo dato forte importanza al mezzo fotografico e video, grazie al lavoro di Samuele Pellecchia di Prospekt che ci ha accompagnato in tre anni di lavoro sul campo, nelle quattro città nuove di Lanzhou, Tongzhou, Zhaoqing e Zhengdong. Sono quattro città molto diverse tra loro, ma la loro scelta sottolinea come alcuni fenomeni osservati in questi luoghi non siano straordinari, bensì si possano ritrovare in centinaia di altre “Zhaoqing” o “Lanzhou”, in Cina come altrove.

Questa considerazione ci ha aiutato a generalizzare alcune questioni, ricorrenti in un fenomeno che in Cina vede spostarsi in città quasi 20 milioni di persone all’anno: la priorità data alle infrastrutture nella progettazione delle nuove città; l’idea che progettare città oggi significhi procedere per frammenti e visioni incrementali, piuttosto che a piani urbani capaci di controllare tutto; la consapevolezza che i confini tra città e campagna stiano diventando sempre meno riconoscibili. Questa impostazione, nata prima della pandemia, è stata perfino rafforzata dall’emergenza vissuta nell’ultimo anno. Ci ha fatto capire come, in un mondo globalizzato, non si possa più evitare di sapere che cosa succede in posti come Wuhan, la città di oltre dieci milioni di abitanti di cui, fino a marzo 2020, pochissimi in Italia avevano mai sentito parlare.

Cosa prevedete per il futuro delle new town cinesi? Perdurerà il rapporto tra sviluppo economico e sviluppo urbano?

 In Cina sta emergendo chiaramente come l’urbanizzazione, modello importato dall’Occidente e per quattro decenni abbracciato dal governo come motore di crescita, necessiti di un maggiore equilibrio con il resto del territorio, se vuole diventare una via di sviluppo davvero sostenibile. La costruzione di new town si è finora concentrata principalmente nel 25% del territorio del Paese, l’area più ricca ed appetibile ma anche la più fertile dal punto di vista agricolo, causando un preoccupante consumo di suolo produttivo.

 Negli ultimi 2-3 anni, stiamo osservando una forte reazione a questo problema: sia attraverso la costruzione di città nuove nella Cina più interna, grande sfida ambientale date le condizioni aride e inospitali; sia attraverso la sperimentazione di nuove “città-paesaggio”, dove l’agricoltura entra a far parte integrante della vita urbana. Dietro a quest’ultima tendenza non vi sono solo questioni di sostenibilità economica e ambientale, ma anche aspetti identitari: la storia della civiltà cinese è stata principalmente rurale, anche nei momenti di massimo splendore, e oggi è considerato importante portare questa memoria perfino nelle nuove città.

 Urbanistica e architettura paiono assenti nel dibattito contemporaneo. Trovano poco rilievo nelle testate nazionali e sono poco presenti nei discorsi dei cittadini. A cosa imputate la causa di questo disinteresse? Accade lo stesso in Cina?

 In Cina la città è senz’altro al centro del discorso politico, veicolo di propaganda della cui efficacia il governo si è accorto molto bene, in quanto “promessa” per moltitudini di cittadini. Ma la città è anche al centro del mondo comunicativo e divulgativo: ogni anno quasi 20 milioni di nuovi cittadini devono conoscere che cos’è la città, sapere “come si usa”, conquistare un nuovo “status” urbano che non conoscevano. E infine, il mestiere dell’architetto e dell’urbanista è al vertice della scala di reputazione professionale. Sono aspetti che non dovevano essere così diversi, ad esempio, nell’Italia del boom economico.

 Se da noi l’architettura ha perso ormai questa rilevanza, colpisce come non ne abbia guadagnata una nuova, legata al suo ruolo di qualità in uno sviluppo del territorio che sia rispettoso e sostenibile. La Cina può per certi versi ispirarci: se anch’essa ha molta strada da fare sul piano della qualità architettonica e urbana, la presenza dell’architettura e di altre discipline umanistiche e scientifiche è invece molto solida nel dibattito pubblico e sui media. Questo accade in virtù della grande enfasi di questo periodo su formazione e cultura, intesi come elementi di “stabilizzazione” della classe media e quindi dei suoi consumi.

Quale ruolo hanno i progettisti italiani in Cina? Per quali tipo di competenze e incarichi sono chiamati ad operare?

La Cina ha raggiunto generalmente una forte consapevolezza delle proprie capacità, maturate in anni di attenta osservazione e apprendimento dall’Occidente. A questo si somma, nello specifico della progettazione architettonica, il celebre discorso di Xi Jinping che nel 2014 si scagliò contro l’”architettura strana”, che soprattutto architetti occidentali riversavano in Cina considerata come una specie di parco giochi architettonico. Questi fattori hanno fatto sì che lo spazio per i progettisti occidentali in Cina si sia ristretto molto. Valga l’esempio delle Olimpiadi: per “Pechino 2008” furono chiamati i più importanti architetti internazionali, per “Pechino 2022” (giochi invernali) la progettazione è stata completamente cinese, dove l’unica eccezione è proprio italiana (il progetto del Politecnico di Torino per il sito olimpico di Shougang).

Se dieci anni fa la Cina cercava un confronto architettonico e urbano a tutto campo, ora le possibilità di collaborazione si sono ristrette ad alcuni problemi molto mirati, dove c’è ancora la consapevolezza di poter migliorare. Un esempio è il filone del recupero di edifici industriali, ricco di grandi opportunità in Cina dal momento in cui, una quindicina di anni fa, è stata lanciata una politica di trasferimento degli impianti produttivi al di fuori di città sempre più inquinate. Grandi fabbriche si sono svuotate nel cuore dei centri urbani, rappresentando una straordinaria palestra per sperimentazioni e trasformazioni architettoniche. L’Italia è osservata con grande attenzione per gli interventi in questo ambito, e Torino con occhio particolare: si pensi ad esempio al recupero del Lingotto o al Parco Dora, modelli ammirati dai colleghi cinesi.

Se diamo per acquisito che i luoghi in cui viviamo determinano in parte chi siamo, chi sono i cinesi neo urbanizzati ?

In meno di vent’anni sono cambiati radicalmente. Nei nostri primi viaggi in Cina, intorno al 2008, visitando Pechino o Shanghai si aveva l’impressione che molti dei cittadini stessero ancora imparando a “usare” la città, nel confronto con una cultura secolare basata soprattutto sulle abitudini e sui ritmi di una civiltà rurale: gli orari erano ancora quelli della campagna, la sveglia con l’arrivo del sole, la cena alle cinque del pomeriggio. Oggi invece, trovandosi in una città cinese ci sentiamo noi del tutto impreparati, dovendo imparare a interagire con tecnologie estremamente sofisticate e con stili di vita completamente nuovi.