Il critico e gallerista torinese Guido Costa è stato uno dei relatori protagonisti della rassegna Impara l’arte. Introduzione alla ricerca contemporanea, promossa dal Comune di Modena e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Modena e organizzata dal Consorzio per il Festivalfilosofia in collaborazione con la Galleria Civica e la Fondazione Fotografia. 
Il ciclo di conferenze, impostazione filosofica e linguaggio per non addetti ai lavori, prevede l’analisi di teorie e pratiche dell’arte: da una parte il focus teorico mira, grazie all’intervento di maestri del pensiero contemporaneo quali Remo Bodei, Massimo Cacciari e Mario Perniola, ad attivare nuovi quesiti intorno al destino dell’opera d’arte in una prospettiva globale, dall’altra il focus pratico è affidato ad affermati curatori e direttori di gallerie e Musei d’arte contemporanea, quali Guido Costa, Danilo Eccher e  Gianfranco Maraniello, che raccontano in prima persona l’incontro con l’opera esemplare di alcuni grandi artisti contemporanei quali Nan Goldin, Christian Boltanski e Giuseppe Penone.
Lo scorso 29 gennaio, nella sala dell’Auditorium Marco Biagi, Guido Costa ha introdotto il lavoro di Nan (Nancy) Goldin, artista di fama internazionale, cresciuta nella controcultura newyorkese di fine anni ’70, icona della cultura underground, consacrata da grandi mostre nei principali musei del mondo.
Sei laureato in filosofia estetica e, da sempre, sei molto attivo sulla scena critica, ultimo questo tuo intervento al Festivalfilosofia su Nan Goldin. Conduci un’attività curatoriale e di ricerca teorica in parallelo al tuo ruolo di proprietario di galleria di arte contemporanea, che per sua natura è un’attività dalla forte componente economico-commerciale. Questo tuo percorso ti ha aiutato nelle vendite, è stato totalmente separato o addirittura, talvolta, ti ha negativamente condizionato nel rapporto con il mercato?
Per me il gallerista è un curatore a tutti gli effetti ed è assolutamente necessario comunicare al pubblico uno spessore culturale alla base dell’attività espositiva; certo all’inizio può non essere facile gestire una galleria “culturalmente orientata”, la gente si spaventa, ma va sempre e comunque apprezzato lo sforzo che ha portato il visitatore – e potenziale compratore – ad affacciarsi al mondo dell’arte contemporanea, persino se spinto da motivi economico-speculativi. Alla fine questa mia scelta mi ha sempre ripagato, anche commercialmente, perché la qualità della ricerca viene riconosciuta nel tempo e il compratore ha bisogno anche di questo sostegno, non c’è solo il piacere di “fare l’affare”, questo fa parte delle regole del gioco…in realtà in giro c’è una vera e propria urgenza culturale, che va affrontata e sostenuta, ognuno nelle proprie possibilità.
Qual è oggi lo strumento migliore per afferrare l’orizzonte teorico nell’ arte contemporanea? Il catalogo, il convegno, la lectio magistralis, il workshop o ci sono altre forme che consentano di “fotografare” la discussione critica?
Per cogliere uno scenario in continuo mutamento come quello dell’arte contemporanea si deve rimanere culturalmente attivi a 360°e tutti questi “strumenti” possono contribuire allo scopo; culturalmente attivi vuol dire essere ricettivi, curiosi, anche solo guardare Sky Arte e seguire costantemente i nuovi canali di informazione, anche se l’informazione che proviene dalla rete è necessaria ma non sufficiente…Alla fine la cosa più importante rimane VEDERE l’arte di persona e per farlo è necessario spostarsi, viaggiare continuamente, costruirsi un network personale di settore perché l’informazione sia sempre aggiornata. Il catalogo può essere un’arma a doppio taglio, ci sono volumi di estrema qualità e tutt’oggi personalmente investo molto in libri d’arte, così come ci sono cataloghi assolutamente inutili. Altri ancora, impostati come degli elenchi, servono quasi solo per creare una certificazione, l’attestazione della storia di un’opera d’arte, ma non servono da un punto di vista concettuale.
Se il gallerista è un guru, anche in campo estetico, tu sei certamente un archetipo, certo aiutato da una fisicità da attore, il profilo severo, la figura asciutta…Da sempre il tuo look total black (per questa intervista declinato in total grey) è inconfondibile, dai gioielli in argento alle scarpe mai banali…Quanto sei legato alla moda?
Sono molto legato alla moda ma non sono il classico fashion addict, la griffe non mi interessa particolarmente; soprattutto in passato mi piaceva ricercare i singoli capi nei negozi di nicchia che scovavo a New York piuttosto che in Olanda o a Londra…oggi sono meno ossessionato nella ricerca (e continuo ad amare i jeans) ma la moda è indissolubilmente legata all’arte e quindi al mio mondo, alcuni fotografi che seguo in galleria lavorano per brand mondiali e mi invitano spesso alle sfilate di moda, eventi estremamente divertenti e interessanti, che permettono comunque di rimanere sempre aggiornati sulle tendenze globali, sui trend.
Qual è il leitmotiv che ha condotto la scelta degli artisti e l’ideazione dei progetti site-specific della tua galleria?
La costante che ha accompagnato le mie scelte è stata sempre di ordine emotivo-sentimentale. Gli artisti con cui collaboro mi sono vicini nel senso che tra me e loro si è instaurato fin da subito un rapporto empatico, amicale, più o meno intimo, ma sicuramente di reciproca stima. Ho incontrato raramente artisti, di cui apprezzassi particolarmente il valore della ricerca artistica, che si rivelassero lontani da questa sim-patia reciproca.
Per quanto riguarda, invece, la selezione di un indirizzo estetico dominante, ritengo di aver deciso, seppur inconsciamente, per un eclettismo di fondo. La considerazione giunta dall’esterno, di aver operato una scelta di genere rispetto agli artisti con cui ho stretto un legame di collaborazione (tutti uomini, tranne una donna), mi ha molto sorpreso, ma mi ha fatto riflettere, senza ancora trovare una motivazione.

Guido Costa photo Mauro Raffini

Come è cambiato, secondo la tua esperienza, il panorama del gallerista negli ultimi anni?
L’idea di cambiamento per me non ha necessariamente un’accezione negativa. In questo senso il fatto che il mondo dell’arte abbia subito dei cambiamenti nell’ultimo ventennio segue il processo evolutivo della società contemporanea. E’ innegabile che a partire dai primi anni Novanta l’arte abbia acquisito una certa popolarità, soprattutto a livello mediatico, abbandonando la connotazione essenzialmente culturale ed elitaria che fino a quel momento l’aveva contraddistinta. L’artista diventa una star, ed è seguito da un pubblico sempre maggiore, le sue opere acquistano un valore sempre crescente e di conseguenza sempre meno persone possono accedere al mercato dell’arte che ne regola domanda e offerta. Le gallerie sono portate ad adeguarsi a questa nuova tendenza che purtroppo non è più economicamente sostenibile per le realtà più piccole.
Potresti raccontarci qualche aneddoto relativo all’esperienza di collaborazione con fondazioni e istituzioni museali nazionali ed internazionali?
Il gallerista è oggi un “facilitatore” nel rapporto tra l’artista e l’istituzione: esperienza che ho recentemente vissuto nell’organizzazione della mostra del fotografo ucraino Boris Mikhailov presso CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia di Torino e in contemporanea presso il MADRE – Museo d’Arte Contemporanea Donnaregina di Napoli.
Il rapporto con le istituzioni museali, siano esse pubbliche o private, risulta piuttosto complicato soprattutto da un punto di vista economico.
Il ruolo della galleria d’arte contemporanea è quello di promuovere il lavoro dei propri artisti con mostre regolari in galleria (una mostra personale per ciascun artista ogni 4/5 anni) e con progetti espositivi ideati e realizzati per biennali, musei, fondazioni o fiere d’arte. Oggi questo lavoro richiede uno sforzo finanziario notevole da parte del gallerista che interviene nel processo di produzione delle opere.  Sono rare le istituzioni come la Tate Modern di Londra o il Centre Pompidou di Parigi, che oggi possiedono risorse economiche adeguate per poter acquisire le opere degli artisti, che dopo l’esposizione, vengono restituite al gallerista e ricoverate in deposito con costi di gestione notevoli.
Ci fa pensare positivamente per il futuro l’affermazione della famosa gallerista americana Ileana Sonnabend che disse di essersi arricchita grazie alle opere in-vendute custodite nel suo storage.

Elena Inchingolo & Paola Stroppiana