A pochi giorni da quello che sarebbe stato il 96esimo compleanno della fotografa newyorkese ha inaugurato presso Palazzo Chiablese di Torino una delle tante mostre a lei dedicate negli ultimi anni e che terminerà il prossimo 26 giugno. Vivian Maier ingloba in sé due destini in uno, e questo potrebbe essere il motivo di tanta attenzione.

E’, prima di tutto, un “caso”: la sua vita misteriosa come bambinaia, al riparo da ogni relazione sociale o sentimentale, la famiglia frammentata già da poco dopo la sua nascita, la sua compulsività nell’accumulare ogni tipo di documento, traccia, ricordo della sua strana esistenza, dentro la quale pochissimi sono riusciti ad aprire un anche solo piccolo varco. Ma nulla si saprebbe sul suo conto senza il ritrovamento casuale delle sue migliaia di negativi, mai mostrati a nessuno, da parte di un giovane ragazzo ad un’asta organizzata per sgomberare il garage che conteneva gli ultimi segni del passaggio della signora dall’accento francese che si faceva chiamare “Miss Smith”.

Per questo si parla del caso Vivian Maier: tutto ciò che si sa di lei si deve a John Maloof, il ragazzo che si è messo sulle sue tracce facendo emergere dall’oblio chi nell’oblio ha cercato di rimanere durante tutta la propria esistenza. Il secondo destino è indubbiamente quello di essere stata una grande fotografa, attività che portò avanti tutta la vita da amatrice grazie alla sua formidabile spinta a raccogliere e quasi spiare ciò che potesse far trapelare o rivelare un qualche significato delle esistenze che la circondavano.

Ecco, dunque, ciò cui ci si trova di fronte guardando le sue immagini, pressoché tutte scattate con una Rolleiflex – di cui la mostra ci fornisce in visione l’esemplare da lei posseduto – quindi di formato quadrato: ritratti, scene di reportage urbano, dettagli di scenari in cui si muoveva che diventano vere astrazioni dei segni che l’uomo lascia – riflessi, pozzanghere, tende, oggetti lasciati per strada o buttati nella spazzatura. La mostra è divisa nei capitoli principali in cui si è suddivisa la ricerca della Maier, come, importantissimi, gli autoritratti, e poi la strada, i segni, i bambini, gli ultimi approcci al video con pellicole da 8mm e 16mm.

 

 

Il corpus del suo lavoro sembra contenere una costante e affannosa ricerca volta, pare, più a comprendere qualcosa che non sia riuscito ad appartenerle, un’umanità del tutto estranea di cui pure avrebbe voluto far parte. Partendo dall’inizio, la prima sezione è quella degli autoritratti, molti divenuti ormai famosi. Come unica fotografa di sé stessa, la traccia di sé che ci ha lasciato è spesso intrecciata a visioni frastagliate e ripetute da effetti specchianti, da riflessi nelle vetrine dei negozi, oppure sotto forma di ombra. Lei nel mondo: un esistere registrato. Il secondo passo nel mondo della Maier è la strada.

Forse il maggior numero di scatti riguardano il reportage urbano. La vera dimensione della fotografa è indubbiamente l’umanità viva, colta nei millimetri che la rivelano. Espressioni facciali, gesti nascosti, il modo di camminare o di tenere le gambe, le acconciature, gli sguardi rivolti a lei o altrove formano una vastissima catalogazione dell’umano. Si viene poi trasportati nella parentesi del “Viaggio in Italia”, a cui probabilmente si deve anche il sottotitolo della mostra “Inedita”: una piccola stanza dedicata a qualche scatto ai nostri noti luoghi torinesi, tra cui la zona del Duomo e Piazza Castello, là dove ora si trova la mostra in omaggio alla fotografa.

Nella sua profonda capacità di sintesi formale, in cui riesce a raccogliere i pochi elementi che servono attorno al viso di una persona per poterle dare un contesto, una storia, un luogo e quindi una vita, non manca un certo simbolismo, una qualche illuminazione che la fa paragonare a opere consacrate della storia dell’arte: si veda per esempio la fotografia che ritrae due fratelli, il primo di spalle baciato da una suggestiva luce che lega l’immagine alla cultura del cinema neorealista, e il più piccolo di fronte, di cui si intravede soltanto un pezzetto di nuca, mentre le loro due ombre si stagliano nette sulla parete di lato, e ne fa intuire l’intera silhouette: viene in mente il “Ritratto allo specchio” di R. Magritte.

Questa immagine fa parte della vasta sezione dedicata all’infanzia, prosecuzione naturale del suo mestiere di bambinaia che praticò tutta la vita, spostandosi a lavorare per numerose famiglie. La mostra offre anche la possibilità di avvicinarsi un po’ di più al materiale autentico della Maier, mettendo a disposizione alcune strisce di negativi stampati a provino e delle stampe vintage, ovvero originali, che danno un effetto del tutto diverso da quelle normalmente esposte, senza più tracce dei difetti portati dall’analogico.

Come ultimo capitolo sulla corposa produzione della fotografa viene presentata una selezione di fotografie a colori e alcuni filmati che documentano vari momenti trascorsi coi bambini che accudiva. Anche nel suo approccio al video si nota una certa sperimentazione, anziché il mero obiettivo di registrare per ricordare, mettendo la Maier nella posizione di ricercatrice autentica sui mezzi che utilizzava.

A permeare l’esposizione non è, quindi, solo il talento di una fotografa giustamente paragonata ad altri maestri come Lisette Model, Robert Frank, Diane Arbus e altri (di cui sarebbe interessante vedere in esposizione i lavori per permettere anche a un pubblico meno esperto la valutazione di questi confronti), ma anche la voracità con cui questo talento è stato espresso – seppur sempre con la delicatezza della fotografia umanista francese – nel raccontare la vita da chi, della propria, avrebbe finito per non lasciare traccia.

Carola Allemandi