Il Palazzo è in fermento.  La facciata di Palazzo Madama è stata stretta da un fiocco blu che ne certifica il restauro: anche il Palazzo Reale sfoggia un’accoglienza con ponteggio e disorienta chi è abituato a varcarne il portone e a girare a sinistra, verso la biglietteria.

Se si volesse evitare di attraversare i Giardini reali per raggiungere l’ala nuova dei musei archeologici, si può prendere la scorciatoia che dallo scalone principale conduce al corridoio da cui si entra nella cupola del Guarini. Un’occhiata al Duomo sottostante è doverosa prima di reimmettersi nel corridoio, seguirlo a sinistra e varcare finalmente la soglia del museo archeologico dal lato opposto. 

La Collezione Gualino

L’accoglienza è demandata al volto della Venere di Botticelli che annuncia l’esposizione della collezione Gualino all’interno della Galleria Sabauda che ha trovato, presso il secondo piano dei Musei Reali, la nuova collocazione da quando fu trasferita da Via Accademia delle Scienze nel 2014. Veniva inaugurata da Re Carlo Alberto nel giorno del suo compleanno, il 2 ottobre 1832, ricca di ben 364 dipinti.

L’intervento è parte dell’ampio progetto di riordino della collezione di pittura nella Manica Nuova di Palazzo Reale, avviato nel 2017. I nuovi spazi tendono sicuramente alla valorizzazione delle opere esposte per favorirne una miglior fruizione rispetto al passato. L’esposizione è stata allestita in collaborazione con il progetto museografico dello Studio Loredana Iacopino Architettura e la Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino.

Di cosa si tratta esattamente? 

Le aziende sono realtà radicate nei territori in cui operano, fanno parte ed agiscono nella locale comunità: va considerata la portata sociale ed ambientale e la sostenibilità dell’agire imprenditoriale. Con questo spirito da 35 anni opera la Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino. Oggi sono 38 le aziende socie, otto delle quali entrate a farne parte negli ultimi due anni, a riprova della forza e dell’attualità di un’iniziativa privata che ha le sue radici nella Responsabilità Sociale che anima e sostiene il Mecenatismo Etico delle Imprese e degli Enti Soci. La collaborazione tra la Consulta e i Musei Reali di Torino comincia nel 1998, con la realizzazione della Sala Leonardo presso la Biblioteca Reale.”

La collaborazione tra la Consulta e i Musei Reali inizia nel 1998” afferma il Presidente Giorgio Marsiaj  “e negli anni abbiamo accolto con entusiasmo le richieste di intervenire sulle diverse realtà che compongono uno dei venti maggiori musei del nostro paese, che si colloca tra le primarie istituzioni museali europee”.

Oggi viene presentato il nuovo allestimento della Collezione Gualino,” aggiunge la Dott.sa Lisbona, “un insieme straordinario, frutto dell’amore per le arti decorative, per la pittura e la scultura di un grande imprenditore torinese, visionario e coraggioso.” Il riferimento va ovviamente al biellese Riccardo Guarino.

Imprenditore, collezionista e mecenate, Riccardo Gualino (Biella 1879 – Firenze 1964) è stato un protagonista della storia italiana del Novecento. La sua azione, contraddistinta da un forte legame tra i progetti realizzati nella sfera economica e l’impegno profuso nel campo dell’arte e della cultura, rappresenta un modello singolare rispetto alle tradizioni dell’imprenditoria italiana. Cosmopolita e grande viaggiatore, negli anni venti e trenta Gualino ha percorso l’Europa, le Russie e gli Stati Uniti, intrecciando la vita degli affari con quella del collezionismo. Mossa da un forte impulso verso la modernità e il futuro, l’esistenza di Gualino trascorre tra fabbriche ultramoderne e dimore d’eccezione, sedi della sua favolosa collezione, frequentate da studiosi, musicisti, artisti, danzatori, intellettuali, politici e industriali.

La Collezione Gualino

La collezione di Riccardo Gualino è stata ed è considerata una delle più significative e importanti raccolte italiane del Novecento. Avviata negli anni dieci, fu alimentata da una straordinaria disponibilità di risorse, realizzate dall’imprenditore biellese nei settori del commercio, della produzione industriale e della finanza, in Italia e all’estero. Comprende sculture e dipinti, reperti archeologici, arredi, vetri e ceramiche, oreficerie, arazzi e tessuti, datati dall’antichità ai primi decenni del XX secolo, provenienti dall’area europea, orientale e mediorientale.

Condivisa con la moglie Cesarina Gurgo Salice (Casale Monferrato o Torino 1890 – Roma 1992), la collezione nasce come raccolta antiquariale con funzione d’arredo, per poi assumere un nuovo e più ampio orientamento, impresso dal sodalizio con lo storico dell’arte Lionello Venturi, coinvolto come consulente nel 1918. Nel corso degli anni venti, la collezione dei Gualino entra nella sfera del mecenatismo, con il sostegno offerto agli artisti attivi a Torino, in particolare a Felice Casorati e al gruppo dei Sei pittori. Nel 1925 Gualino inaugura il Teatro di Torino, uno spazio aperto al pubblico, di produzione e di ricerca nel campo della musica, del teatro, della danza e del cinema, modellato sull’esempio dei teatri “d’eccezione” di Parigi, Vienna, Londra e Berlino. Nel 1928 un nucleo consistente della collezione viene esposta nelle sale della Pinacoteca Sabauda di Torino.

L’attività dell’imprenditore si interrompe alla fine del 1930 con il crack determinato da una serie di fattori tra cui la Grande crisi del 1929, le perdite della Snia Viscosa, la principale azienda del suo Gruppo, la bancarotta di un socio francese e l’ostilità di Mussolini e di Giovanni Agnelli, socio di una delle sue imprese. Agnelli, tramite la sua IFI subentra a Gualino in molte aziende minori, stabilisce i suoi nuovi uffici a Villa Gualino e fa radere al suolo l’ippodromo mirafiori per edificare la nuova FIAT Mirafiori. Per ordine del duce, il 19 gennaio 1931 Riccardo Gualino viene arrestato e condannato al confino di polizia che sconterà a Lipari e poi a Cava dei Tirreni. Le sue proprietà, compresa la collezione (in parte già assegnata nel 1930 alla Galleria Sabauda) e i beni mobili e immobili sono posti in liquidazione e consegnati alla Banca d’Italia. Il confino segna una netta cesura tra due epoche, un decisivo cambio di passo e di approccio esistenziale. Dopo un soggiorno a Parigi, i Gualino ritornano in Italia: acquistano una villa a Firenze e una serie di abitazioni a Roma. Le opere d’arte tornano alle pareti delle nuove case. Alla passione per il teatro subentra quella per il cinema che si concretizza con l’attività della Lux Film, la casa di produzione di pellicole come Riso amaro, del 1949, diretto da Giuseppe De Santis. Riccardo Gualino muore nella sua casa di Arcetri, sulle colline fiorentine, il 7 giugno 1964 all’età di ottantacinque anni.

Con lo spostamento della Galleria Sabauda dal Palazzo dell’Accademia delle Scienze alla Manica Nuova di Palazzo Reale nel 2014, la Collezione Gualino aveva trovato una sistemazione parziale in un ambiente unico al terzo piano della Pinacoteca ed era presentata secondo un criterio prettamente cronologico, che non teneva conto della complessità della sua formazione.

A seguito dei recenti studi ad ampio raggio condotti sulla figura del finanziere piemontese in occasione della mostra I mondi di Riccardo Gualino collezionista e imprenditore, allestita nelle Sale Chiablese nel 2019 – spiega Annamaria Bava, responsabile delle Collezioni d’Arte e di Archeologia dei Musei Reali – risultava ormai imprescindibile restituire anche una giusta dimensione alla straordinaria raccolta di un personaggio che, in primis nel mondo dell’arte e dell’industria, ma anche in tanti altri campi, ha segnato la storia della città di Torino all’inizio del Novecento. Il nuovo allestimento permette inoltre di valorizzare la formazione e la ricchezza della raccolta che, dal 1930, è entrata a far parte del patrimonio dello Stato Italiano”.

Il percorso, ordinato per epoche storiche, è fedele alle scelte e al gusto di Riccardo Gualino, anche in relazione al contesto storico della sua epoca.

Questo riordino è stato condotto nel segno della più ampia accessibilità dei contenuti e delle grandi storie racchiuse nel patrimonio della Galleria Sabauda – dichiara Enrica Pagella, Direttrice dei Musei Reali -. Per Gualino, la vita e le passioni di un fine collezionista si intrecciano ad una storia della produzione artistica che va dall’antico Egitto all’Ottocento, abbracciando pittura, scultura e arti decorative. Un percorso che meritava di essere sorretto da un allestimento nuovo e adeguato, sia in termini di articolazione di spazi e di luci, sia per i supporti esplicativi. È un risultato importante che i Musei Reali non avrebbero potuto raggiungere senza il sostegno della Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino, cui si è aggiunto quello di Gabriella e Giuseppe Ferrero, che con generosità hanno voluto accompagnare questo importante intervento”.

Il percorso, suddiviso lungo sette sale al secondo piano della Galleria Sabauda, propone ambienti immersivi, dalle cromie di segno contemporaneo. Nella prima sala, accoglie i visitatori un filmato prodotto dalla Banca d’Italia, che ancora oggi ospita a Roma una parte della raccolta. Ciascuna sezione del percorso testimonia le predilezioni estetiche del proprietario: uno sguardo a Oriente; il gusto dei Primitivi; dipinti, ori e avori; la casa museo; il Rinascimento e oltre; il gusto per l’antico; la galleria dei ritratti.

La visita è un’occasione unica per ammirare oltre 120 opere tra le quali spiccano capolavori della pittura toscana, come la Madonna in trono di Duccio di Buoninsegna e la Venere di Sandro Botticelli, e dipinti veneti come Venere e Marte di Paolo Veronese e Leda e il cigno della scuola di Tiziano. Si aggiungono oreficerie antiche e raffinati reperti archeologici, come il gruppo scultoreo egizio della IV dinastia e il raro Piatto cartaginese con Nereide del VI secolo d.C., che testimoniano la passione antiquaria di Riccardo Gualino.

La Collezione Gualino

Contestualmente al nuovo allestimento della Collezione Gualino, si presenta il riordino del settore di pittura del Settecento, una nuova idea degli spazi con l’aggiunta di opere finora conservate nei depositi, secondo un’organizzazione cronologica per ambiti culturali e geografici che illustra le scelte collezionistiche della Corte Sabauda a partire dal primo Settecento, segnato dall’arrivo di Filippo Juvarra a Torino.

Se da un lato si apprezza l’immane sforzo dei curatori dei Musei Reali, acchè opere e spazi espositivi trovino una simbiosi che prenda per mano il visitatore e lo lasci scivolare tra le pregiate realizzazioni artistiche e i reperti ben ordinati e catalogati, dall’altro va annotata l’essenzialità della cartellonistica e l’illuminazione leggermente fastidiosa. La luce, obliqua dal soffitto, non riesce a minimizzare le macchie di luminose riflesse dall’olio dei colori costringendo l’osservatore ad una visuale parzialmente compromessa. Ineccepibili, come sempre, la didascalia delle opere e i pannelli storici precisi e puntuali.

A spasso tra il secondo e il terzo piano della nuova manica museale si scoprono, prima di prendere commiato dall’enorme quantità di materiale repertato, tesori inaspettati che rievocano la nostalgia dei manuali di Storia dell’arte che hanno indirizzato il senso estetico di più di un liceale.

La discrezione di una teca, lungo il corridoio, cela la dignità sabauda di non incensarsi in eclatanti e rumorosi richiami al pezzo di pregio. Due tavolette in foglia d’oro del Beato Angelico si mostrano nella loro genuina semplicità concedendosi ad una stupita ammirazione. Un busto attribuito a Giacomo Spalla rimanda alla memoria la vicenda dell’ebanista e scultore torinese vittima di un avvelenamento mai risolto in sede giudiziaria.

I Fiamminghi olandesi si contendono più di una nota di ammirazione con i seguaci della scuola caravaggesca, passando dai ritratti, vivi nelle espressioni facciali e nella gestualità mimica, alle pose nobiliari di bambini dalla testa troppo grossa e dalle fattezze spudoratamente non edulcorate da una cortigiana necessità di minimizzare il difetto. L’opportunità del gesto castiglionesco di ritrarre di profilo il Duca di Montefeltro, lascia spazio al sadismo voluttuoso di ritrarre volti scimmieschi fermati nel realismo poco nobile della loro effettiva entità.

L’essenza dello stato senile nel ritratto di una vecchia fa da contrappunto alle artificiali nature morte da cui sembra poter cogliere un acino d’uva o inebriarsi dalla fragranza vermiglia di un melograno. Gli omaggi agli eroi guerrieri di casa Savoia, rappresentati in primo piano tra accampamenti e truppe schierate da un manuale militare in posa manieristica e neoclassica vogliono dissociarsi dagli sfondi bucolici delle colline piemontesi, leonardiane nel loro verde oliva e virgiliane nel contrapposto senso di pace all’imminente battaglia.

Lo stesso dicasi per i ritagli georgici di boschi e corsi d’acqua dove la luce prorompe da dietro retroilluminando la scena, infondendo alito vitale alle figure che popolano le scene di caccia, le gite fuori porta o anche i banchi di un mercato.

Quello che infine attira l’occhio dell’osservatore, è, in certe opere, l’anatomia del dettaglio, la capacità tridimensionale di un particolare che si separa dal contesto imposto del ritratto o della scena aulica per passare oltre: diventare soggetto, alieno ad ogni costrizione religiosa o celebrativa, opera a parte, autonoma, slegata.

La Collezione Gualino

Particolari, giochi di luce, allusioni, persino sbeffeggiamenti, pose pantocratiche, nervi e muscoli scolpiti nel momento di massimo dolore, esperimenti sinestetici di statue e figure umane ritratte in atteggiamenti canonici, architetture e prospettive, trasparenze nei tessuti a rivelare filigrane a livello microscopico, gestualità non più ingessate dall’ortodossia iconografica ma in movimento sull’onda dello spazio contestuale, degli oggetti deuteragonisti. La simbologia non è più direttrice dell’opera, ma parte di essa: coprotagonista mediante oggetti, sfondi, una ruga, un risvolto di una manica.

Si osservino Rebecca ed Eliezer al pozzo, di Giovanni Lanfranco; Vanitas, di Jan Brueghel il giovane; Ritratto di Isabella Clara, Eugenia, di Antoon Van Dyck; dello stesso Van Dyck, i figli di Carlo d’Inghilterra; Cornelis de Vos, ritratto di giovinetta all’età di dieci ani; Giovanni Francesco barbieri (Il Guercino), Padre eterno. Lo sporgere di un libro, il viso non idealizzato di un contadino, una pagina girata, la pelle tirata sul costato di un vecchio fotografato nella magrezza del suo braccio; il San Gerolamo di Matthias Stomer; o ancora il busto di Maria Adelaide in veste di Diana di Antoine Coysevox o il busto di Maria Teresa d Asburgo – Lorena di Antonio Moccia. Le dieci opere commissionate a Huchtenburg da parte del Principe Eugenio per celebrare le proprie vittorie, teatralmente accostate le une alle altre offrono un senso di continuità fotografico a 360 gradi dalla prospettiva di chi guarda. In realtà gli scenari sono tutti diversi, accomunati unicamente dalla schematicità dell’insieme esecutivo che fonde l’orizzonte in un ripetitivo ondulatorio movimento collinare sotto un cielo di colore uniforme. L’omaggio servile dell’artista è rappresentato da una schiera di putti che servono al principe la palma e la corona attraversando le nubi in un tratto di cielo parzialmente squarciato da un substrato luminoso; ma la metafora è presto svelata nella scarsa qualità del dettaglio, volutamente accennato. Così Jan Griffier, in presa di un forte, sembra preoccuparsi più della veduta renana dell’ansa di un fiume che non del dramma del forte assediato, in netta contrapposizione alla quiete del cielo e del paesaggio. In ritratto di donna anziana, di Michiel van Musscher, il realismo dello sguardo quasi sornione, le rughe del mento e intorno alla bocca, il busto leggermente inclinato in avanti, abbandonano del tutto la ricerca stereotipata della forma per abbandonarsi al solo peso dell’essenza, rimarcato dallo scuro dell’abito e dalla luminosità del volto. Abraham Brueghel inneggia al colore e alla forma nella sua natura morta con frutti e fiori dove di morto c’è solo il tentativo fuori luogo di trafiggere un’anguria con il coltello, donando un ingenuo senso di movimento ad un horror vacui di soggetti sparsi su un tavolo che sembrerebbe volerne ospitare molti meno. Eppure è la perfezione realizzativa che annulla ogni fanciullesca ingenuità, ogni sensazione di fastidio: la bravura manuale sembra sfidare chiunque a rivaleggiare nella rivelazione di ogni dettaglio, indispensabile alla sintesi tra la scuola di Anversa e la contaminazione meridionale della vita del pittore.

La collezione assume pregio non tanto per la qualità o la quantità delle opere; nemmeno per il percorso temporale che esplora, bensì per un vezzo, magari sfuggevole, di rappresentare l’umanità sotto luci diverse, spogliandola da un manierismo ridicolo per prendersene gioco sotto forma di paludata ieraticità. Traduce la mano dell’artista nel linguaggio dell’esperienza vissuta, conformandosi, anche a seconda del periodo, ad un prammaticità consueta e dovuta piuttosto che al realismo, anche beffardo, di una nuova visione del mondo.

Alberto Busca