Torino, 14 maggio – 30 luglio 1706.

L’esplosione fu tremenda.

Da centodiciassette giorni, dal 14 maggio, 44.000 Francesi assediavano 10.500 Piemontesi, rintanati nella cittadella. Vauban cercava invano di dissuadere il Capitano Louis d’Aubusson, Duca de la Feuillade a perseverare in un attacco diretto. Si era preso carico in prima persona di studiare scientificamente l’assedio, evitando inutili perdite umane e di tempo.

Eppure il de Feuillade, tracotante d’orgoglio per i discutibili successi in Val Germanasca, non sembrava voler sentir ragione e impartiva, con la consueta arroganza, ordini per l’assalto definitivo.

L’inesperienza e la presunzione di evitare i consigli del Direttore Generale delle fortificazioni di Francia, giocò, alla fine, un ruolo determinante negli avvenimenti di quel giorno. Senza contare che se avesse attaccato l’anno precedente, anziché tentare di rinforzare gli assedianti con la campagna della Val Germanasca, avrebbe sicuramente evitato che i Sabaudi rafforzassero le difese della cittadella e arrivassero a fortificare fino in prossimità della collina.

Vauban, ormai Maresciallo di Francia, fu richiamato da Re Luigi a Dunkerque, lasciando, per l’assedio di Torino, solo il piano che prevedeva un’avanzata laterale, ad evitare le pericolose gallerie sabaude.

Pur lamentandosi presso lo stesso Re Luigi, non riuscì ad evitare che de la Feuillade prendesse la decisione di avanzare direttamente, scavando trincee in posizione centrale rispetto alla cittadella. Il 12 maggio avvenne un fatto straordinario. I Francesi scavavano giorno e notte per avvicinarsi ai bastioni e minarli mentre la loro artiglieria vomitava oltre 143.000 proietti tra bombe, palle di cannone e granate esplosive.

I Piemontesi facevano incetta di cibo dalle cascine della Vanchiglia e di munizioni attraverso il fiume. L’acqua non era un problema: una cisterna di venti metri di diametro pescava direttamente dalla falda sottostante raggiungibile mediante una scala ad elica che ricordava il famoso pozzo di San Patrizio.

Improvvisamente il silenzio calò su entrambi i fronti; il sole stava lentamente oscurando mentre la pianura tra il Po e l Dora si ricopriva di ombre. Il cielo, completamente sgombro di nubi, elargiva il suo spettacolo esibendosi in una eclissi di sole che, gradualmente, lasciava intravedere l’arco stellato alle proprie spalle.

Il sole, il simbolo di Re Luigi, stava lentamente scomparendo, mentre, all’orizzonte, si stagliava, netta e inconfondibile, la costellazione del Toro.

Quattordici battaglioni imperiali, quattordici battaglioni piemontesi, i reparti di cavalleria, i cannonieri e i minatori esultarono come un sol uomo, lanciando in aria i berretti di ordinanza, recanti tutti, compresi quelli appartenenti ai protestanti, l’immagine di Maria Consolata, adottata come preghiera contro le bombe incendiarie francesi, le boulets rouges.

Antonio Bertola, dimessa la professione di avvocato e assegnato alla direzione dei lavori di fortificazione della cittadella, esultava insieme ai soldati, ai suoi ingegneri e ai cittadini che tanto avevano contribuito alla realizzazione delle difese. La luce lentamente tornava ad illuminare la cisterna, la casamatta (detta il Pastiss), il bastione San Lazzaro, la piazzaforte e lo spalto che la circondava, eretto solo l’anno precedente. Le uniche a non essere illuminate erano le gallerie di contromina e i numerosi cunicoli profondi oltre quattordici metri, che si estendevano sotto la cittadella e ben oltre gli spalti.

La cittadella di Torino era, di fatto, la piazzaforte meglio difesa in Europa, giustificando i timori di Vauban e ingannando la faciloneria del de la Feuillade.

Il 17 giugno Vittorio Amedeo II trasferì il comando al Generale Virich von Daun e abbandonò la cittadella alla testa di 4000 cavalieri, deciso a dare corso ad azioni di guerriglia lungo la piana piemontese per sfoltire il numero di possibili assedianti. De la Feuillade decise di inseguirlo con 10.000 uomini, lasciando il comando al Generale Chamarande.

L’inseguimento cessò non appena il Duca Savoia si addentrò nelle valli valdesi dove, la conoscenza del territorio e l’appoggio dei guerriglieri protestanti avrebbero avuto facilmente ragione degli inseguitori. Il 20 luglio de la Feuillade era nuovamente sotto i bastioni torinesi, cercando l’entrata della mezzaluna del Soccorso, la galleria che lo avrebbe portato direttamente al cuore della cittadella.

Il 14 agosto sembrò rivelarsi un giorno fortunato: intercettate le fonti di cibo e di munizioni, i Piemontesi erano allo stremo. Persino la polvere nera si stava esaurendo, costringendo gli artiglieri a preservare i colpi. Come se non bastasse i Francesi sembravano aver trovato un ingresso alla galleria del Soccorso e si apprestavano ad entrare. Per gli assediati non restava che attendere che la mezzaluna fosse ben stipata di Francesi per farla saltare, seppellendo gli intrusi. Il de la Feuillade aveva provato sulla propria pelle la pericolosità delle gallerie di contromina, tanto temute dal Vauban.

Due giorni dopo, mosso forse dall’isteria, o dal desiderio di riscatto, il comandante francese optò per un attacco diretto con 38 compagnie di granatieri. Fu un massacro. I Piemontesi riversavano loro addosso qualsiasi oggetto fosse infiammabile, costringendo gli attaccanti ad una vergognosa ritirata.

Non c’era più tempo. Il Principe Eugenio marciava con 20.000 uomini in soccorso di Torino e nella notte del 29 luglio si era già attestato a Villastellone, deciso ad incontrare il cugino Vittorio Amedeo. Re Luigi aveva inviato a dar manforte al de la Feuillade, un suo capitano, il Duca d’Orleans, deciso a mettere fine all’assedio ed assestare il colpo di grazia ai Piemontesi.

Gli attacchi alle fortificazioni e alle entrate delle gallerie si susseguirono incessantemente ottenendo finalmente di riuscire di nuovo a penetrare nella mezzaluna del Soccorso, nel tratto detto della “capitale alta”. L’obbiettivo dei granatieri francesi era quello di penetrare nel tratto della “capitale bassa” per minare alla base la mezzaluna e dilagare direttamente nella casamatta.

Il piano, tuttavia, non era di facile realizzazione: le scale che conducevano alla capitale bassa erano protette da una porta cui era di guardia Pietro Micca, un muratore della Valle Cervo e un suo commilitone. Pietro sapeva perfettamente che i Francesi non ci avrebbero messo molto a sfondare la porta e aver ragione delle due guardie.

Predispose una carica in una nicchia alla base delle scale e si preparò a posizionare una miccia a lenta combustione. Avrebbe avuto tutto il tempo di scappare mentre la carica avrebbe distrutto la galleria ed i granatieri al suo interno. Lo sgomento si dipinse sul volto del soldato nello scoprire che la miccia era umida e non si sarebbe mai accesa. Non solo: i Francesi avevano ormai sfondato e un’altra miccia avrebbe corso il rischio di essere strappata, diventando inutile.

I due soldati si guardarono negli occhi. Micca appoggiò una mano sulla spalla del compagno e gli asciugò le lacrime che si stavano disegnando sul volto nero. Estrasse una miccia corta a rapida combustione dallo zaino e si preparò ad innescare la carica. I Francesi erano ormai a pochi passi.

«Va via, che sei più lungo di una giornata senza pane. Qui ci penso io.»

L’esplosione fu tremenda.

Mentre da una parte si levava il fumo di una carica minata dall’interno dei tunnel che conducevano alla cittadella, dall’altra si intravedeva la polvere alzata dalla cavalleria di Vittorio Amedeo II e del Principe Eugenio di Savoia Carignano, Conte di Soissons, che accorrevano in soccorso di Torino.

La cittadella sembrava integra. La difesa dei Sabaudi si stava per trasformare in un contrattacco, feroce e tremendo.

Torino, 2 agosto – 6 settembre 1706.

Vittorio Amedeo ed Eugenio osservavano la città dall’alto della collina di Superga. La sera del due agosto era decisamente calda, ma una leggera brezza sfiorava la collina cullando le foglie dei platani e i tralicci d’edera abbarbicati ai muri a secco. La visuale che si offriva ai loro occhi era un trinceramento quasi ininterrotto degli Ispano Francesi. La zona nord ovest era particolarmente ostica: le trincee troppo vicine alla cittadella, lasciavano poco spazio di manovra, rischiando di essere colpiti da fuoco amico. Per contro, il resto del campo assediante sembrava prestarsi a subire l’impeto di una carica senza che i trincerati avessero spazio di fuga.

«Ces gents là sont dejà a demi battues.1» sussurrò Eugenio senza distogliere lo sguardo dal campo nemico.

«Spero tu abbia ragione.» «I Francesi non si aspettavano certo l’arrivo di oltre 20.000 soldati in soccorso di Torino.» «Senza contare che dovranno combattere con le munizioni razionate.» aggiunse Vittorio Amedeo. «In che senso?» volle sapere il Principe Eugenio.

«Ieri abbiamo intercettato un carro carico di munizioni nascoste sotto alcuni sacchi di patate. Lo conduceva una donna: forse i Francesi pensavano che lo stratagemma ci avrebbe indotti a non perquisire il carico. È stato un colpo di fortuna. Infatti dopo aver trovato le munizioni ne abbiamo scaricate oltre la metà, abbiamo bagnato le altre e ricomposto il carico con i sacchi di patate e posto alla guida una delle cuoche»

«Sarebbe bastato sequestrarlo. Perché rischiare?» «Per essere sicuri che quando caricheranno i moschetti, spareranno a vuoto … » «Una bella idea. Lo ammetto. A proposito di munizioni: sarebbe perfetto se riuscissimo a prendere il castello di Pianezza..» lo informò Eugenio.

«Dove i Francesi custodiscono il deposito di munizioni e polvere nera?» chiese incredulo il Duca. «Esattamente. Ho a disposizione una squadra di granatieri di Brandeburgo sotto il comando di Leopoldo I di Anhalt – Dessau: sarebbero perfetti per questa azione.»

«Davvero? E come speri di farli entrare?»

«Anche in questo caso entrerebbe in gioco una cuoca: Maria Bricca, se ricordo bene il suo nome. I nostri informatori sanno dove abita; era una delle cuoche del castello e sembra conoscere un passaggio segreto che conduce direttamente al salone delle feste.»

«Magnifico!» esclamò il Duca eccitato. «Presa Pianezza possiamo direttamente pianificare l’attacco al campo francese.» «D’accordo allora. Procediamo.»

La notte tra il 5 ed il 6 settembre il Comandante Leopoldo costeggiava con i suoi granatieri la Stura di Lanzo fino ad incrociare la Dora Riparia. La guadò nei pressi della Pieve di San Pietro e si unì al drappello di Piemontesi di scorta a Maria Bricca. Insieme imboccarono il passaggio segreto che si snodava attraverso una galleria e che terminava in una scala a chiocciola.

Gli intrusi salirono guardinghi la scala in pietra fino a giungere alla porta che li separava dal salone principale. Dall’altra parte si udivano suoni di gente che danzava al ritmo di una piccola orchestra. Probabilmente il salone era gremito di alti ufficiali e funzionari di Sua Maestà Re Luigi, intenti a festeggiare prematuramente la conquista di Torino.

Irruppero nel bel mezzo della festa facendo strage di Francesi, soldati o civili che fossero. Solo gli orchestrali vennero risparmiati alla carneficina che proseguì nelle altre stanze finchè tutto il castello fu liberato. La stessa Maria Bricca procedeva indemoniata, ascia in pugno2 a rivendicare il licenziamento subito quando il castello era passato di mano sotto i franco ispanici.

Torino, 7 settembre 1706.

«Toglimi una curiosità: quando eri ancora nella cittadella, sotto i bombardamenti, gira voce che Re Luigi temesse per la tua incolumità e volle farsi dire quali fossero i quartieri in cui tu alloggiavi.»

«E’ vero. Mandò un ambasciatore a chiedermelo.» «E tu cosa rispondesti?» «Che dove più ferveva la lotta e maggiormente cadevano le bombe, mi avrebbero trovato lì.»

«Ahahahah! Risposta davvero epica. Scommetto che ora rimpiange di non averti fatto fuori quando avrebbe potuto.» «Probabile. Vogliamo studiare la strategia di attacco?»

La notte era calda e umida, di quell’umidità che solo Torino era in grado di produrre. L’aria calda della pianura veniva spinta verso la barriera Alpina per poi stazionare sull’abitato, impossibilitata a trovare altri varchi. Nel padiglione dei due cugini era giunta da poco la notizia della presa di Pianezza. Vittorio Amedeo ed Eugenio brindarono insieme con gli altri Generali dello Stato Maggiore con un moscato d’annata che tendeva alla malvasia.

Un’enorme mappa della cittadella e della pianura circostante mostrava le posizioni delle trincee nemiche, i pochi rilievi e l’immissione degli affluenti nel Po. Vittorio Amedeo spostò delle pedine di legno sulla carta.

«Concluderemo la manovra di accerchiamento posizionandoci tra la Dora e la Stura. I Francesi non avranno possibilità di contrattacco in uno spazio così ristretto. Da qui ci dispiegheremo sull’intero fronte e daremo battaglia.»

«Li aggireremo con il grosso dell’esercito e una parte della cavalleria. Rasenteremo la cittadella sfilando da nord ovest per portarci a ridosso delle trincee. Il nemico non potrà che chiudersi nelle difese senza possibilità di attaccare.» aggiunse Eugenio.

«Ha un senso.» sentenziò il Duca. «Ora si tratta di capire come ingaggiare l’Orleans e separarlo dal resto del suo schieramento.» «A questo penserà la fanteria prussiana del Principe Leopoldo. Forse occorrerà più di un assalto ma alla fine riusciremo a separare l’ala destra e sfondare.»

Al quarto assalto Prussiano il reggimento La Marine che sosteneva l’ala destra restò senza munizioni e si disperse.

Eugenio era impegnato ad affrontare la cavalleria dell’Orleans che, come previsto, non poteva ricevere aiuto dal resto dei soldati, chiusi nelle trincee a difendersi dagli attacchi del fronte piemontese. Le sei compagnie di artiglieria, composte da 300 cannonieri, aprirono il fuoco dai bastioni, coadiuvate da 200 cavalieri del Reggimento “Reale Cavalleria”, aprendo vuoti tra le file francesi prese tra due fuochi.

Respinto l’attacco dell’Orleans, dopo averlo ferito, Eugenio arretrò per ricompattare gli squadroni di cavalleria e unirsi a Vittorio Amedeo che, forte del fatto che l’ala destra francese era in rotta, puntò sul centro ottenendo una precipitosa fuga verso i ponti di Po dopo aver abbandonato a sé stessa l’ala sinistra.

I reggimenti Piemont e Normandie coprirono alla meglio la ritirata francese, abbandonando Lucento e cercando la via di fuga verso la Val Chisone. Eugenio e Vittorio Amedeo entrarono a Torino da Porta Palazzo, tra il giubilo generale. Si recarono al Duomo per assistere al Te Deum come ringraziamento per la vittoria.

Il Duca guardò il cugino fissandolo negli occhi. «Ricordi quella notte d’agosto in cui osservavamo da Superga lo schieramento francese?»

«Certo. Lo ricordo bene.» «Credo sia il posto ideale per erigere una Basilica. A ricordo della vittoria di oggi.»

Il Principe annuì lasciando che lo sguardo del Duca si spostasse sulla collina torinese, abbracciandola come un’amante. Per un attimo chiuse gli occhi e lasciò che il profumo della città liberata e le acclamazioni della folla gli pervadessero narici e orecchie.

Si concesse di riandare con la memoria alla carica in mezzo alle trincee francesi, agli assalti degli alleati prussiani, alla manovra di suo cugino per dividere i rinforzi dell’Orleans, tra spari, ruggiti di cannoni, urla e lamenti, schegge e sangue. Ricordò il nome di quel muratore della valle Cervia che sacrificò la vita insieme a migliaia di giovani che non avevano avuto il tempo di vivere la giovinezza e migliaia di veterani che giovani non erano mai stati.

Riaprì gli occhi percorsi da un lampo; solo Eugenio parve accorgersene.  I Francesi risalivano la val Chisone per trovare scampo dagli inseguitori; se avessero raggiunto il Mutin avrebbero stabilito un avamposto per presidiare il nuovo confine. Un fremito d’adrenalina lo percorse lungo tutta la sua statura mentre chiudeva i pugni e guardava fisso la collina: «Dobbiamo prendere il forte Mutin.»

Eugenio sembrava fissare lo stesso punto del cugino, probabilmente Superga; per un attimo immaginò una stupenda basilica in pietra bianca a dominare sulla pianura.

Sorrise e lasciò che la sua mano si appoggiasse sulla spalla del Duca in un gesto complice e fraterno allo stesso tempo: «E liberare la valle fino a Pragelato.»

Vittorio Amedeo restò in silenzio. Le parole del cugino alimentavano in lui una sete di rivalsa, un senso di onnipotenza che gli lasciava immaginare l’avanzata dopo Fenestrelle da una parte e la caduta di Exilles dall’altra: La Val Chisone e la val di Susa, montanari e valdesi, borghesi e pastori, avrebbero parlato piemontese, o franco provenzale, o ancora francese, in fondo era la lingua che parlavano tutti, persino dietro le grate del palazzo protetto dai Dioscuri.

Probabilmente non sarebbe cambiato niente.

Alberto Busca