Pasqua è il centro della fede per i cristiani di ogni latitudine ed è un fatto di straordinaria potenza; ma anche per chi non crede una narrazione altrettanto significativa. Tuttavia dopo duemila anni, molto marketing aggressivo e parecchio meticciato religioso e politico, abbiamo dato alla resurrezione diversi sinonimi che non le fanno onore, certamente politically correct, ma esistenzialmente meno efficaci oltreché errati.

Andiamo al cuore dunque per fare poi un po’ di chiarezza. Il Cristo risorto è uno che è morto, morto per davvero e morto in tutti i sensi in cui uno si può dire morto, per giunta in modalità drammaticamente evocative in tempo di coronavirus. Gesù è morto nella sua carne umana, morto di infarto dovuto allo sforzo di respirare crocifisso. Morto psicologicamente e moralmente: Cristo è solo, abbandonato dai suoi discepoli, da quelli che aveva beneficato, da suo Padre di cui non sente più la relazione. Quel grido: Dio mio Dio mio perché mi hai abbandonato è la cifra di tutto questo. Morto nella sua divinità: detto questo spirò non è un modo diverso per raccontare la morte, quello spirare è verbo che dice il restituire la sua divinità al Padre, restituire al Padre lo Spirito divino per non averlo più, per non riceverlo più a motivo del peccato del mondo, carnefice ultimo di Gesù.

Pasqua per gente in quarantena.

Morto, gettato nella sua divinità all’inferno, chiuso nella sua umanità in una tomba avvolto in un lenzuolo. Tre giorni, Pasqua, risurrezione. Oggi. L’oggi di Dio. Ma Cristo non è semplicemente ritornato in vita e Pasqua non è affatto la festa della rinascita, né il risorgimento dopo l’oppressione. La rinascita comporta che la vita solo assopita si risvegli dal letargo come avviene in natura. Oppure la rinascita comporta una nuova vita, del tutto differente dalla prima che è stata interrotta per sempre, per cui permane al massimo un legame cosmico, legato alla materia che non si crea e non si distrugge.

Con tutto il rispetto per chi crede altro, la risurrezione è un’altra cosa che non può, per onestà intellettuale, essere confusa con altro, benché animati da spirito di fratellanza multireligiosa o filosofica. Il verbo risorgere prima non c’era e gli evangelisti ne prendono uno vecchio a prestito dandogli un significato nuovo. Il verbo è quello che si usa per descrivere quanto facciamo tutti ogni mattina: ci si sveglia, ci si siede sul letto e poi ci si alza.

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Gli evangelisti usano quel verbo lì, prima del tutto anonimo, da quella mattina del tutto rinnovato, immaginando con una buona dose di santa semplicità quello che Gesù ha fatto nel sepolcro e che il film The Passion di Gibson, per chi lo ricorda, riprende con efficacia. La risurrezione ha un valore unico perché di quei 33 anni passati sulla terra nulla viene cancellato o rinnegato. Gesù risorge con i buchi nelle mani per dire che quanto è accaduto non sparisce magicamente.

Il Risorto continua a riconoscere i suoi amici, curiosamente non frequenta i suoi nemici, compie gesti che facciano capire ai suoi questa continuità, primo tra tutti il mangiare. Ma quella vita, nello stesso tempo, non è semplicemente quella di prima, infatti i suoi amici non lo riconoscono, passa dalle porte chiuse, è visto in posti diversi nel medesimo tempo.

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Dunque cosa significa tutto per noi al tempo di COVID 19? Celebrare la risurrezione significa guardare a questo tempo non con la semplice speranza che il tempo, la scienza o qualche miracolo riporti le cose a come erano il 1° di gennaio del 2020. La risurrezione ha cambiato del tutto la storia non riportando Gesù alla vita di prima, ma conferendo alla vita di prima ed alla morte un senso del tutto nuovo. Risurrezione significa non rinunciare al passato, in tutto ciò che è stato, ma rilanciarlo nel futuro con una consapevolezza ed un senso nuovo. Passare attraverso la morte ci dona sempre un modo diverso di guardare la vita. Solo nel momento in cui una persona cara muore, un genitore ad esempio, prendiamo davvero coscienza di cosa significhi vivere.

E morire, naturalmente. La Risurrezione di Gesù conferisce all’umanità un modo nuovo di vedere la vita se si accetta di guardarsi dentro con quello sguardo e quel criterio. Vita fatta di momenti che non sempre tornano, fatta di relazioni che sono durature solo nel momento in cui le coltiviamo, fatta di luoghi e di abitudini che non dovrebbero essere dati per scontati, ma visti e vissuti sempre come doni preziosi. La risurrezione riconsegna un modo diverso di stare con noi stessi, consapevoli della fragilità e del limite che abbiamo, ma nello stesso tempo, proprio in ragione di quel limite, che abbiamo un patrimonio – la vita – che non è dato per essere messo sotto un mattone, ma per essere investito giorno per giorno per vivere l’unica cosa che resta al di là della morte, l’amore.

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La risurrezione ci aiuta a guardare il tempo nella prospettiva dell’eternità che non rende i nostri minuti relativi, ma preziosi ed unici. Non ci sono seconde possibilità, vite alternative, vite multiple. C’è una vita, questa, che è fragile e preziosa e forse non va sprecata cercando colpevoli delle nostre frustrazioni, o assassini dei nostri sogni comunque irrealizzabili.

Una vita che può essere piena nella misura in cui è donata, una vita che risorge solo se è donata. Questa Pasqua più di altre, per i credenti e per chi spera nel domani, non è un giorno che cambia le cose. Pasqua, questa più di altre, è il segno che domani sarà identico a ieri e per molti giorni un domani recluso. Ma proprio perché è Pasqua, un tempo che dura ben cinquanta giorni sino a Pentecoste, domani può essere completamente diverso perché io scelgo di essere, finalmente, all’altezza della promessa di eternità che mi è data, posso essere, davvero, colui che consuma la vita affinché la vita sia davvero degna, non la mia prima ma quella degli altri e, dunque, la mia come conseguenza. Buona Pasqua dunque, di risurrezione, per chiunque scelga di far uscire l’autentica umanità che siamo dalle tombe scomode in cui per tante ragioni ci siamo tumulati o lasciati tumulare.

don Luca Peyron

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