GazzettaTorino, ha deciso di raccogliere opinioni, pareri, punti di vista, sul futuro della città, rivolgendo sei domande, sempre le stesse, a persone impegnate a diverso titolo nella società, nella politica e nella cultura, su un tema rilevante del dibattito pubblico, a nostro avviso trascurato: la Torino di domani.
La città appare in questo momento, come si suol dire “sotto lo zelo di Abramo”, ossia pronta ad essere sacrificata senza sapere bene per chi o per che cosa. E noi, come Isacco, vorremmo che alla fine si salvasse.
 Mauro Anetrini è avvocato e autore di diverse pubblicazioni in materia penale. Lo ringraziamo per la  partecipazione a Torino Domani.

Torino Domani

Mauro Anetrini

Dopo un viaggio all’estero, al rientro la città e talvolta l’Italia tutta appare più piccola, bloccata, come fosse imprigionata dentro ad un incantesimo cattivo. Prova anche lei questa sensazione, e se la risposta è si da cosa reputa sia dettato questo sentimento.
La prima sensazione che si prova rientrando dall’estero è lo smarrimento indotto dalla regnante disorganizzazione. Immediatamente, si nota il cestino traboccante di rifiuti, la porta scorrevole non agibile, ovvero la gente che si accalca al ritiro valigie per guadagnare l’uscita il più velocemente possibile. Una volta saliti in taxi, ci si confronta subito con i prevaricatori della strada – quelli che non rispettano le code – e si fanno i conti con le buche disseminate lungo il percorso. Questo è il biglietto da visita, che anticipa l’impatto con una realtà nella quale la confusione sembra il motivo dominante. Se, per caso, si transita nei pressi di un ospedale, è impossibile non avvertire un forte disappunto per la struttura fatiscente.
Noi sappiamo bene che anche qui ci sono medici di prim’ordine, che la nostra industria è in grado di competere e non sfigurare, Nondimeno, siamo vittime del lassismo imperante, della superficialità e, molto spesso, dell’indecisione.
Insomma: siamo prigionieri dei nostri limiti, dai quali non riusciamo ad affrancarci.
Il dibattito sul futuro di Torino, su cosa voglia divenire, cosa ambisca a rappresentare, quale tipo di identità desideri per se ed i suoi abitanti sembra inabissarsi e virare ad un pensiero che verte solo sui conti, sui debiti, sulle spese; una grande liquidazione dei progetti e dei sogni. Come siamo arrivati a questo?
Proseguendo nella risposta appena data, Torino non si discosta dalle altre realtà del paese, ma conserva, tuttavia, alcune caratteristiche proprie, nelle quali continuo a sperare. A differenza di altri, siamo pragmatici, abituati a fare i conti con quello che abbiamo e a tenere conto dei nostri limiti. Il debito, per noi, è una linea di confine che marca la legittimità della spesa, non una voce di bilancio: un punto che, troppo spesso, però, ci ha costretti a rinunciare a progetti di crescita che avrebbero potuto recare benefici a tutta la città. Torino è cambiata, dopo le Olimpiadi, diventando meta turistica tra le più ambite. Purtroppo, manca progettualità politica e – anche – persone che facciano valere i nostri interessi dove si decidono i grandi investimenti.
Cosa sarebbe opportuno fare per ripristinare fiducia, grinta, carattere, alla città ? Trovare un modello da seguire, che so Amsterdam o Londra, per dinamismo e opportunità, o dobbiamo individuare e inventarci un’altra strada ?
Io credo che un cambio di marcia vero e concreto potrebbe derivare da un cambio di rotta nella gestione della Regione. Il Piemonte, infatti, non è soltanto Torino, ma non può stare senza Torino. Ci serve un rapporto osmotico tra istituzioni e imprese private che consenta alla città di recuperare il posto che le compete e al resto della Regione di godere dei benefici in ricaduta. Persa la FIAT, ci resta, ad esempio, Lavazza, che ha saputo innovare e modernizzarsi; ci resta, altrove, Ferrero e un numero di aziende vinicole di prim’ordine. Se Torino fosse facilmente raggiungibile – e collegata come si deve al resto d’Europa – la città potrebbe diventare una sorta di centro di smistamento verso le periferie regionali e trarne cospicui vantaggi. Oggi, invece, Novara gravita su Milano, Alessandria su Genova, Cuneo fa da sé (e fa per tre); Biella sembra lontanissima dal centro della Regione.
La politica possiede ancora la capacità di coinvolgere e costruire un’appartenenza, ha perduto la pietra focaia che accende passioni o, semplicemente ha smesso di usarla? 
La politica è assente da Torino, da molto tempo. La città ha progressivamente perso i punti di riferimento, culturali e imprenditoriali. La stessa Banca Intesa, oggi, sembra attratta nell’orbita – e nel sistema – milanese. Le passioni ci sono ancora, e forse covano sotto la cenere, ma – come ho già detto – serve un progetto identitario, ovvero, meglio: un progetto costruito su misura per Torino, non su una metropoli generica.
A cosa attribuisce il fatto e la responsabilità di non vedere e sottostimare le cose meritevoli e buone del nostro paese? 
I tempi sono quelli che sono. Oggi, non si spiega nulla e si preferisce usare frasi ad effetto, sincopate. Il pensiero umano, però, è articolato, complesso e non può non tenere conto di tutte le sfaccettature della realtà. Insomma: siamo superficiali. Purtroppo, vista l’attuale dirigenza comunale, lo siamo diventati anche noi torinesi.
C’è un libro, un film, o uno spettacolo teatrale, che a suo dire rappresenti al meglio il nostro tempo e prefiguri un indizio interessante per il domani ?
Culicchia, Baricco, Romagnoli, tanto per fare tre nomi. Io farei attenzione, più che al libro in sé, alla fertilità di questa città, che, nonostante tutto, continua a produrre arte e letteratura. Siamo orfani di Norberto Bobbio, è vero, ma non ci siamo dimenticati di lui e del suo insegnamento liberale. Guardando al futuro, direi di erigere a nostro simbolo – e fonderle in mirabile sintesi – le due squadre di calcio della città: forza e cuore; determinazione ed volontà inesauribile; razionalità e fantasia. A differenza delle squadre milanesi, romane o genovesi, Juventus e Torino, sono due modelli (solo apparentemente) contrapposti, in cui si concentra ciò che siamo e che, se vogliamo tornare grandi, dobbiamo continuare ad essere.

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